Roma: sgomberi, migranti e violenza…

Foto
Foto “Souvenirs” by Alexander Edward – Flickr

Tornato dalle ferie e ripreso il solito tran tran quotidiano, avevo messo mano a due o tre bozze di post da pubblicare sul blog. Mi sono però imbattuto in un bellissimo articolo scritto dalla giornalista Francesca Fornario sul caso degli sgomberi dei migranti a Roma della scorsa settimana e mi è sembrato giusto condividerlo, perchè secondo me merita… Buona lettura!

“Migranti Roma, agli sgomberi io c’ero e ho visto chi sono i violenti” di Francesca Fornario

“Devono sparire, peggio per loro. Se tirano qualcosa spaccategli un braccio“, grida il poliziotto durante lo sgombero. Il bilancio delle cariche a piazza Indipendenza sarà infatti di piedi e nasi rotti, lividi che passeranno e ferite che no, perché si cancella il sangue dall’asfalto ma non il segno che lascia assistere, da bambino, alle manganellate inflitte a tuo padre dai poliziotti armati che irrompono in casa all’alba (è questo che ricorderanno le decine di bambini portati via a forza dallo stabile in cui vivevano da cinque anni).

E tutti, sui social, a prendere le parti, convinti da una narrazione giornalistica sciatta e in malafede che le parti in campo fossero poliziotti contro migranti, “Che però uno ha lanciato una bombola del gas”. “Che però era vuota”. Convinti che tra loro vadano cercati i violenti. Le testimonianze dei presenti circolano secondo la risonanza che trovano: “Ma quella donna l’hanno sbattuta a terra con l’idrante e poi le usciva il sangue dal naso e da un’orecchio!” (commento su Facebook). “La carezza del poliziotto a una migrante disperata” (home page di Repubblica).

A piazza indipendenza io c’ero. Avrei potuto scrivere ieri di quello che ho visto, ho preferito scrivere oggi di quello che so, perché temo che si scriva solo degli effetti e non delle cause; solo della violenza in piazza – raccontata con parole sbagliate: “gli scontri”, che in realtà sono cariche, una parte armata ne carica una disarmata – e non, invece, della violenza più impetuosa e virulenta che innesca le cariche, generando l’esclusione sociale che porta alle occupazioni abusive e agli sgomberi.

Il termine “violenza” ha, sul vocabolario, due sfumature di senso. Violenza è la furia aggressiva delle cariche e dei manganelli, quella di quando chi la esercita e chi la subisce vengono immortalati nella stessa inquadratura, consentendo a chi commenta la foto sui social di discettare su chi ha aggredito chi. Ma questa violenza di piazza non esisterebbe senza quell’altra, più esecrabile perché esercitata da chi avrebbe il compito di “rimuovere gli ostacoli che limitano l’uguaglianza tra i cittadini e impediscono il pieno di sviluppo della persona”, come recita la Costituzione. La violenza dei poliziotti non si abbatterebbe sui profughi, sugli studenti, sui lavoratori in sciopero se non fosse preceduta dalla violenza dei governanti: dall’abuso, la prevaricazione, la violazione del diritto. “Violenza” è violare la Costituzione che contempla la casa e il lavoro tra i diritti fondamentali – come il diritto dell’esule a ricevere protezione – bloccando l’assegnazione delle case popolari e sbloccando le concessioni edilizie ai palazzinari.

Violenza è la prevaricazione dei molto ricchi sui molto poveri, il privilegio metodicamente concesso per legge ai più facoltosi, anche tra gli immigrati: gli stranieri con grandi patrimoni vengono invitati a stabilire in Italia la residenza godendo di un formidabile sconto sulle tasse per poter fare la bella vita; gli stranieri senza grandi patrimoni vengono respinti nei paesi dai quali fuggono per sopravvivere. Questa violenza feroce non si accanisce solo sui migranti ma sui poveri in genere, perché il potere – a differenza dei poveri cristi che umilia e perseguita – non è razzista: è classista. Agli sceicchi arabi le istituzioni destinano lo scudo, ai profughi eritrei il manganello, a chi costruisce ville abusive lo scudo e ai senza tetto che occupano uno stabile abbandonato il manganello.

Mai il contrario: avete mai visto la polizia caricare i banchieri che truffano i pensionati o pestare gli industriali che sfruttano i lavoratori? “Creare le condizioni minime di uno Stato sociale, concorrere a garantire al maggior numero di cittadini possibile un fondamentale diritto sociale, quale quello all’abitazione, contribuire a che la vita di ogni persona rifletta ogni giorno e sotto ogni aspetto l’immagine universale della dignità umana, sono compiti cui lo Stato non può abdicare in nessun caso”, recita una sentenza della Corte costituzionale (n. 217 del 25 febbraio 1988).

Questo “diritto inviolabile all’abitazione” viene invocato per il miliardario che non paga tasse sulla prima casa e calpestato per l’esule del quale le istituzioni dovrebbero farsi carico: violato per l’esule sotto protezione come per il cassaintegrato sotto sfratto, per il precario che vive con i genitori perché senza un contratto stabile la banca non concede il mutuo e via elencando le miserie dei miseri che si accaniscono gli uni contro gli altri invece di coalizzarsi per ribellarsi a chi li riduce in miseria.

La violenza andata in scena a Roma – e nel resto del Paese – è questa. La sistematica difesa del privilegio, il pervicace oltraggio del diritto. Sono queste le cause dell’emergenza abitativa che – come ho scritto qui – non è un’emergenza: non è un accidente imprevisto ma è il frutto di precise scelte politiche. È vile prendersela con chi per disperazione ha lanciato una bombola, è troppo comodo prendersela solo con la Polizia. Bisogna condannare i violenti che hanno fermato l’assegnazione delle case popolari esistenti e impedito che se ne costruissero di nuove con fondi già destinati e su aree pubbliche di piccole dimensioni perché “Siamo contro il consumo di suolo” e, contemporaneamente, hanno accordato ai privati il permesso di cementificare 20 ettari di suolo per costruire lo stadio.

Con i violenti che tolgono un tetto sopra la testa a decine di famiglie per restituirlo a un fondo immobiliare che ne farà un centro commerciale. Con i violenti che hanno scritto e votato una legge concepita allo scopo di respingere gli esuli lasciandoli morire in mare e nelle carceri libiche. Con i violenti che hanno scritto e votato una legge che consentire lo sfruttamento dei richiedenti asilo (è di ieri il caso della cooperativa di Treviso che proponeva alle aziende del territorio ragazzi “gentili, umili, volenterosi, con un’ottima resistenza fisica e che non avanzano alcuna pretesa dal punto di vista retributivo, professionale o di turnazione” disposti ad accettare una paga di 400 euro al mese), ultima di molte leggi violente scritte per consentire lo sfruttamento di tutti i lavoratori.

I violenti sono quelli che mandano in pensione a 68 anni un metalmeccanico che lavora all’altoforno – condizione che determina una riduzione dell’aspettativa di vita di sette anni – e non ci mandano affatto un precario. Sono quelli che poi mandano la polizia a caricare migranti, metalmeccanici e precari. “Devono sparire”, ha detto ai suoi il poliziotto riferendosi ai rifugiati, come direbbe un netturbino diligente dei mozziconi di sigaretta. La violenza delle manganellate contro gli inermi è l’inevitabile conseguenza del reagire alla povertà come si reagisce allo sporco sui marciapiedi, trattando gli esseri umani peggio delle cose: picchiando i primi per proteggere le seconde.

Le manganellate, quando si affida la gestione del disagio abitativo a persone armate di manganello, non sono un incidente. La violenza non è un incidente. È il nuovo – vecchissimo – imperativo morale del potere. Dopo il fascismo, avevamo scritto una Costituzione che aveva tra gli scopi più nobili quello di combattere le disuguaglianze e la povertà. L’abbiamo tradita per combattere i poveri. Con una furia che oltre che ignobile è demenziale: dopo 20 anni di leggi e politiche che hanno diligentemente concesso sconti e agevolazioni fiscali ai ricchi, precarizzato il lavoro, compresso i salari e i diritti, alimentato le speculazioni immobiliari, fermato l’edilizia popolare, tagliato i servizi e l’assistenza mentre si acquistavano cacciabombardieri tornado, i poveri sono triplicati. Sono quasi cinque milioni gli italiani in povertà assoluta, circa otto quelli in povertà relativa, più di dodici quelli che rinunciano alle cure mediche perché non possono permettersele. Gli stessi che hanno votato e scritto le leggi che hanno moltiplicato i poveri, sguinzagliano in strada i poliziotti per farli sparire.

A Roma la polizia è stata schierata contro i profughi senza casa, in difesa del capitale di un fondo immobiliare, a conclusione di un ciclo storico coerente: prima abbiamo invaso e saccheggiato l’Etiopia e l’Eritrea, depredato quei paesi di ogni risorsa, riducendo in schiavitù donne e bambine. Poi abbiamo armato e finanziato il regime di un dittatore sanguinario come Afewerki, accusato dall’Onu di crimini contro l’umanità. Infine, abbiamo sfrattato i profughi etiopi e eritrei che la legge ci impone di accogliere e proteggere (la legge, non il buon cuore) e manganellato quelli che resistevano allo sfratto. Il tutto, da un secolo a questa parte, per accumulare ricchezze nelle mani di pochi sempre più ricchi a scapito dei molti sempre più poveri.
La violenza inferta ogni giorno da chi dovrebbe proteggerci è questa e il razzismo, oggi come allora, è solo il veleno iniettato alle masse attraverso la propaganda mediatica per evitare che ogni povero si accorga che ogni altro povero gli somiglia.

P.s.: Qualche giorno fa, preoccupati per l’attacco alle Ong, abbiamo scritto un appello. Lo abbiamo firmato quasi in quindicimila. Tra i primi, lo hanno condiviso Erri De Luca, Vauro, Michela Murgia, Padre Alex Zanotelli, Tomaso Montanari, Anna Falcone, Alberto Prunetti, Moni Ovadia, Marco Revelli, Livio Pepino, Marta Fana, Christian Raimo, Mauro Biani, Giulio Cavalli, Alessandro Gilioli. Tanti i portavoce di associazioni e le realtà di base impegnate nell’accoglienza, da Filippo Miraglia dell’Arci a Giuseppe De Marzo di Libera; Monica Di Sisto di Stop Tiip e Ceta, Patrizio Gonella di Antigone, Domenico Chionnetti della Comunità Don Gallo, Baobab Experience, l’Ex-Opg occupato di Napoli, la Casa Internazionale delle Donne, Tpo Bologna e Labas occupato, sindacati come Si Cobas, i segretari di molti partiti che mettono la questione sociale tra le priorità: Maurizio Acerbo di Rifondazione, Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana, Giuseppe Civati di Possibile, DeMa: il movimento di Luigi De Magistris, gli europarlamentari de L’Altra Europa, tantissimi comuni cittadini, ricercatori, persone impegnate nell’accoglienza. La nostra preoccupazione non sembra condivisa dalla maggioranza delle persone. Non lo era nemmeno quella dei professori universitari che si opposero a Mussolini rifiutandosi di aderire al Fascismo: furono appena 12 su 1250. Moltissimi altri cambiarono idea, col tempo.

È qui, vi invito a firmarlo: www.progressi.org/iopreferireidino

Articolo “Migranti Roma, agli sgomberi io c’ero e ho visto chi sono i violenti” di Francesca Fornario pubblicato il 26 Agosto 2017 sul sito de “Il fatto quotidiano”

Le prugne del papa e le more di Sant’Ambrogio.

Foto
Foto “Un albero di cachi a #Milano” by Ylbert Durishti – flickr

Un mio commento a questo post di Gaberricci mi ha fatto tornare in mente un post che avevo in bozza ormai da molto tempo e che cade a pennello con la stagione estiva. Se abitate in una città e vi capita di girare per le strade e nei parchi, vi sarete imbattuti più volte in alberi carichi di frutta matura che spesso marcisce, cade e si spiaccica sui marciapiedi, con tutta una serie di disagi: strade sporche, pericolo di scivolare, insetti attirati, etc…

Da alcuni anni a Roma è nato il progetto Frutta Urbana creato dall’associazione Linaria insieme a Romaltruista che consiste nella raccolta della frutta da alberi urbani, sia pubblici che privati, che nessuno raccoglierebbe. La frutta viene poi distribuita, sia fresca che trasformata in marmellate, a mense sociali, alla Caritas, al Banco Alimentare e a case di Riposo. Una piccola parte viene venduta ai Gruppi d’Acquisto Solidale, nei mercati contadini e/o a negozi a km zero e i proventi vengono reinvestiti per comprare le attrezzature per la raccolta e trasformazione (scale, attrezzi, barattoli, etc…) per la manutenzione del sito web, per impiantare nuovi frutteti e per altre iniziative educative legate alla frutta urbana. Oltre alla raccolta dei frutti questa iniziativa si occupa della potatura e soprattutto del censimento e della mappatura degli alberi da frutta in città. Solo a Roma ne sono stati mappati quasi 500 mentre a Milano (l’altra città dove opera Frutta Urbana) quasi 200.

A questo punto vi chiederete, come ho fatto io, se questa frutta è sicura o è inquinata. Premesso che questi alberi non sono ne’ concimati ne’ spruzzati di antiparassitari chimici o di nessun tipo e che la frutta viene raccolta a piena maturazione e subito distribuita, senza stazionare in magazzini e viaggiare su camion per giorni, rimane il problema dell’inquinamento urbano. Ebbene, i volontari hanno fatto analizzare la frutta ed è risultata con meno residui chimici della frutta da agricoltura convenzionale comprata al supermercato: insomma basta lavarla bene prima di mangiarla!

In queste pagina sul sito di Frutta Urbana sono riportate le analisi chimiche delle Arance Amare colte in via del Porto Fluviale (zona Ostiense) e delle Prugne colte in via del Vaticano, accanto alla sala Nervi e perciò ribattezzate come “le prugne del papa“… E invece, le “more di Sant’Ambrogio”? Sono quelle della marmellata fatta con le more raccolte nel parco Boscoincittà di Milano!

Io sto con Alexis Tsipras e Papa Francesco.

 

Foto “2015 Greece east off Gytheio Skala and about (13)” by Alehins – Flickr
Ci sono due personalità scomode e sgradite a tutto l’establishment politico, finanziario ed economico mondiale. Due personalità che stanno incrinando il pensiero unico di quel liberismo sfrenato e di quella globalizzazione che, pur di salvare le banche, non si fa scrupoli  a far morire le persone. Alexis Tsipras da un lato e Papa Francesco dall’altro, stanno dicendo al pianeta intero che, per il futuro, un’altra alternativa è possibile e che l’austerità, i tagli allo stato sociale, la svendita dei beni comuni ai privati e i diktat della troika non sono più un dogma.
Da una parte il referendum greco sull’austerità di domenica prossima, dando la parola al popolo, riporta al loro significato originale parole come “sovranità”, “dignità” e “democrazia”. Dall’altra l’enciclica “Laudato sì” indica come il salvataggio del pianeta passi inevitabilmente da una riduzione dei consumi, da una maggiore giustizia sociale, dalla tutela dell’ambiente e dall’equa redistribuzione delle ricchezze.
Insomma, a secoli dalla loro nascita, le idee rivoluzionarie di Socrate e di San Francesco stanno facendo tremare i tecnocrati europei e tutto questo si desume da come i media, totalmente asserviti al mondo economico-finanziario, stanno trattando sia Tsipras che il Papa. Non potendoli attaccare sulla verità e sui  contenuti dei loro mesaggi si limitano a screditarli con i soliti mezzucci: di Tsipras dicono che non indossa la cravatta, di Varoufakis che gira in moto e non mette nemmeno la giacchetta. L’enciclica del papa, dopo l’entusiasmo dei primi giorni,  è stata subito archiviata e dimenticata e anche Bergoglio viene trattato (senza offesa per nessuno) superficialmente come quei nonni un po’ rintronati che vengono lasciati parlare e poi messi in disparte, da quei nipoti che poi faranno quello che gli pare…
Ecco, se vogliamo spezzare le catene dell’ingiustizia e della povertà imposte dalla finanza, dobbiamo sostenere e appoggiare sia il Santo Padre che il popolo greco nelle loro lotte per la dignità e la sovranità dei popoli. Come cittadini,  nel nostro piccolo possiamo fare due cose molto semplici:
  1. Leggere e riflettere (ma anche diffondere e condividere), l’enciclica del papa che potete scaricare a questo link. Io lo farò nelle prossime settimane…
  2. Firmare e condividere questa petizione on line “ROMPIAMO LE CATENE DEL DEBITO GRECO” promossa da decine di organizzazioni della società civile e reti da ogni parte d’Europa e già firmata da oltre 17.000 cittadini.

 

Petizione a favore del popolo greco (con testo di presentazione ricevuto per e-mail)

Le popolazioni dell’Europa intera sono devastate dall’austerità, politica fallimentare e soluzione fittizia al problema dell’accumulazione dei debiti pubblici, la maggior parte dei quali sono stati causati dal salvataggio delle banche. I cittadini europei si aggiungono ai milioni di persone nei paesi in via di sviluppo che continuano a essere profondamente toccate dalla nuova crisi da debito e dai decenni di pesante austerità.

La Grecia è in prima linea in materia di crisi del debito europeo. La popolazione greca è oppressa da un debito enorme e impagabile, che trova la sua origine nei prestiti fatti da irresponsabili banche europee, richiesti da una corrotta élite greca e dalla presenza di un network globale di paradisi fiscali che facilitano la fuga dei capitali dal paese. La Commissione per la verità sul debito greco ha iniziato a rivelare la profonda ingiustizia di questi debiti.
La crisi della Grecia, come quelle che l’hanno preceduta, non sono che i sintomi di un sistema finanziario globale che predilige gli interessi delle banche e delle élite finanziarie ai bisogni della popolazione, e i nostri diritti ad un alloggio garantito, a un lavoro decente e ad alcuni servizi pubblici essenziali, come l’acqua, la sanità, l’educazione.
Abbiamo urgentemente bisogno dell’annullamento dei debiti ingiusti, della cessazione di questa austerità forzosa e della creazione di nuove regole per contrastare le crisi del debito con prontezza ed equità, quando si manifestano.
La petizione:

Noi, cittadini e cittadine da tutta l’Europa, chiediamo:
Una conferenza europea sull’annullamento del debito greco come di altri paesi europei, che sia fondata sull’analisi di commissioni di audit pubbliche e finanziata dal denaro recuperato dalle banche e dagli speculatori finanziari, reali beneficiari dei salvataggi.
La fine dell’applicazione delle politiche di austerità che provocano ingiustizia e povertà in Europa e nel mondo intero.
La creazione di regole ONU per affrontare le crisi del debito dei governi con prontezza, equità e nel rispetto dei diritti umani, anche per informare banche e finanzieri che non continueremo a salvarle per le loro folli pratiche di credito.

La Toscana che nutre il pianeta.

Locandina
Locandina “La Toscana che nutre il pianeta” dal sito del Movimento Shalom.

Personalmente non ho nessuna stima di Expo 2015 e non credo che la “Carta di Milano”, documento per l’ONU che nascerà alla fine dell’Expo, risolverà il problema della fame nel mondo. Basta guardare la lista degli sponsor (tutte multinazionali da McDonald’s alla Coca Cola) per capire che sarà  la solita kermesse dei ricchi, dove gli interessi dei poveri resteranno molto sullo sfondo e andranno ricercati col binocolo.

Però ammiro la buona volontà di tutte quelle associazioni che, nonostante tutto e (a mio modesto avviso) con una certa “ingenuità”, cercheranno di portare all’EXPO delle voci e delle esperienze diverse, fuori dal coro. Con questo spirito, e col desiderio di essere smentito dai fatti,  vi presento l’iniziativa della Regione Toscana e di alcune associazioni di volontariato che si terrà domani a Firenze. Ci sarei andato molto volentieri ma purtroppo non potrò partecipare per impegni di lavoro non rimandabili. Mi auguro che nei prossimi giorni venga messo del materiale in rete…

La Toscana che nutre il pianeta. Il civismo Toscano verso Expo.

L’Associazione Il Mondo che Vorrei, il Movimento Shalom ONLUS e l’Assessorato all’Agricoltura della Regione Toscana organizzano una giornata per riflettere sul tema dell’alimentazione e dell’agricoltura nei paesi in via di sviluppo e sul ruolo degli attori pubblici e privati toscani nel settore della lotta contro la fame in vista dell’Expo 2015.

La conferenza si terrà martedì 31 marzo a Firenze presso la prestigiosa location del Circolo del Teatro del Sale  in Via de’ Macci, 111r e vede l’intervento dei principali attori istituzionali nel campo della cooperazione e delle principali associazioni che lavorano in questo settore.

Ecco il programma della giornata:

ore 9,30: inizio della sessione mattutina -Registrazione dei partecipanti

  • Saluto ai partecipanti – Sara Funaro, assessore del Comune di Firenze
  • Presentazione e moderazione – Paolo Pardini, caporedattore di Rai 3 Toscana
  • La Cooperazione Toscana nel mondo – Massimo Toschi, consigliere del Presidente della Regione Toscana
  • La Chiesa toscana al servizio della giustizia e della pace – S.E. Mons. Giovanni Santucci, delegato Conferenza Episcopale Toscana
  • Acqua e sviluppo dei popoli – Mauro Perini, presidente di Water Right Foundation
  • Consapevolezza e responsabilità – Fabio Picchi, Teatro del Sale

Coffee break

  • Gli sviluppi dell’agricoltura in Colombia – Gianni Lusena, Console della Colombia
  • Il Tuscan Food Quality Center per EXPO e oltre – Massimo Vincenzini, presidente di Tuscan Quality Food Center
  • La terra, una madre che nutre – Mons. Andrea Pio Cristiani, fondatore del Movimento Shalom ONLUS
  • Conclusione dei lavori – Gianni Salvadori, assessore all’Agricoltura della Regione Toscana

Pausa pranzo

ore 14,30: inizio della sessione pomeridiana

Le Associazioni in opera

  • Cercare l’acqua nei paesi del terzo mondo – Filippo d’Oriano, Acquifera Onlus
  • Lo sviluppo agricolo nel comune di Nagbingou, Burkina Faso – Silvano Orlandi, Cesvium
  • Cibo per tutti. E’ compito nostro. L’impegno Caritas per il cibo come diritto esigibile – Donatella Turri, Caritas Lucca
  • Lavoro e dignità dell’uomo – Claudio Vanni, Fondazione Il Cuore di scioglie
  • Emancipazione delle donne, sviluppo agricolo e sicurezza alimentare in un distretto montano del Nepal – Paola Ciardi, Fondazione Un raggio di Luce
  • Dalla Toscana alle Filippine: approccio comunitario e diritto al cibo per ricostruire l’esistenza dei sopravvissuti al tifone Haiyan – Carla Cocilova, Arci Toscana
  • Progetto Agata Smeralda: prima di tutto la vita e la dignità umana – Mauro Barsi, Progetto Agata Smeralda
  • Prima di tutto l’acqua – Nicola Perilli, Progetto Strutturante Regione Toscana
  • Povertà e legalità – Mamadou Sall, Associazione dei Senegalesi di Firenze
  • L’impegno della Fondazione in Medio Oriente – Andrea Verdi, Fondazione Giovanni Paolo II
  • Interventi liberi e dibattito
  • ore 17,00: Conclusioni – Riccardo Migliori – Presidente di Isiamed.

Dato il numero limitato dei posti a disposizione nel Teatro del Sale, è necessario richiedere il pass di accesso. Maggori informazioni via mail a ilmondochevorrei.fucecchio@gmail.com o ufficiostampa@movimento-shalom.org oppure per telefono allo 0571/400462.

tratto dal sito del Movimento Shalom.

Boss in incognito

Immagine trovata su internet
Immagine trovata su internet

Su Rai Due sta andando in onda una specie di reality, presentato da Costantino Della Gherardesca, che si chiama “Boss in incognito” e dove il protagonista è il padrone di un’impero industriale: uno di quelli che vivono in ville extralusso con decine di filippini, aereo privato e magari pure con capitali evasi nei paradisi fiscali (ma questo in tv non lo dicono). Lo prendono,  lo truccano, lo travestono con abiti da bancarella cinese (roba che il boss metterebbe mai) e per una settimana lo mandano a lavorare nelle sue fabbriche, circondato da telecamere, con la scusa di girare un documentario sul mondo del lavoro. Un giorno fa il rappresentante, il giorno dopo il commesso, quello successivo l’operaio, etc… e come se non bastasse, vive pure da “sfigato normale”: niente autista personale ma treni e bus dei pendolari, niente suite in hotel a 5 stelle ma normalissimo bed and breakfast con mobili Ikea…

Ma il peggio deve ancora venire perchè nei suoi giorni da “lavoratore in prova” il boss in incognito viene affiancato da operai veri che tentano di insegnarli il mestiere. Gli sceneggiatori, per aumentare il  pathos, scelgono con cura i dipendenti da mettere accanto al boss: mai uno che parli di politica o di sindacato, mai uno che parli male della ditta e soprattutto tutti, ma proprio tutti, precari e casi umani al limite della disperazione… Dall’extracomunitario che non vede i parenti da anni, alla ragazzina orfana che ha lasciato gli studi per campare mamma e  fratellini, a ragazzi tirati via dalla cattiva strada, per concludere con i/le cinquantenni ex-esodati e magari anche separati, che non ce la fanno a pagare gli alimenti, a far studiare i figli e che rinunciano perfino alla pizza del Sabato sera. E tutti quanti rigorosamente disposti a raccontare la loro vita e le loro disgrazie al primo sconosciuto che capita, addirittura davanti alle telecamere e col microfono sotto il naso. Roba che non avrebbe fatto nemmeno la Carrà ai tempi d’oro della lacrima facile…

La trasmissione finisce col padrone che convoca i lavoratori, si smaschera e da buon padre di famiglia offre loro delle regalie: il viaggio al lavoratore extracomunitario per andare a trovare le sorelle, il soggiorno a Disneyland per la ragazza madre col bambino piccolo, la settimana alle terme per la rimessa in forma del/della cinquantenne separato/a che deve “tornare sul mercato”… e perfino, udite udite, rullo di tamburi, a qualcuno pure il contratto di lavoro a tempo indeterminato!

Se il sindacato della Camusso e di Landini fosse un pochino moderno avrebbe già manifestato contro questa trasmissione che secondo me, dal punto di vista culturale, fa più danni del Job Act. Per i seguenti motivi:

  • Perchè è uno spottone pubblicitario gratuito di un’ora e mezza per un marchio-brand-ditta, su una rete della televisione pubblica, pagata dal canone di tutti.
  • Perchè è uno schiaffo alla dignità delle persone in una società e in un periodo in cui la disuguaglianza  fra ricchi e poveri sta aumentando. Se quei dipendenti sono precari, non hanno un lavoro sicuro, se non arrivano a fine mese, la colpa di chi è se non dei padroni che delocalizzano, che chiedono costantemente la riduzione dei salari e che chiudono le aziende perchè preferiscono fare i profitti con le speculazioni finanziare piuttosto che con la produzione industriale?
  • Perchè il lavoro è una cosa seria, anzi dovrebbe essere un diritto garantito dalla Costituzione e dovrebbe consentire al lavoratore una vita dignitosa.  Il lavoro non può essere sminuito e diventare una regalia frutto di carità pelosa,  fornita davanti alle telecamere accese, dal padrone ottocentesco in puro stile vittoriano (alla Dickens per intendersi).
  • Perchè il “tenero padre”, una volta spente le telecamere, nella maggior parte dei casi ritorna ad essere il padrone aguzzino e lo squalo della finanza che se ne frega altamente delle condizioni di vita dei suoi sottoposti e che mira a massimizzare il profitto a qualsiasi costo (anche umano).

O forse, come dicono in tanti sui social, potrebbe essere tutto finto: la trasmissione, il padrone e magari chissà… pure il sindacato!

Blog Action Day 2014: inequality (disuguaglianze)

Oggi è il Blog Action day, il giorno in cui migliaia di blogger di tutto il mondo scrivono tutti quanti un post sullo stesso tema. L’argomento scelto dagli organizzatori per il 2014 è una parola di estrema attualità: inequality, disuguaglianza.

Per questa occasione mi sono riservato di parlare di un articolo che ho letto alcune settimane fa sulla rivista “Internazionale” che ha dedicato proprio  alle disugaglianze uno speciale con tanto di infografica che potete vedere a questo indirizzo: http://www.internazionale.it/atlante/disuguaglianze/

Nel mondo siamo 7 miliardi di persone. Immaginate di dividere la popolazione di tutto il mondo in due… Ebbene, secondo le analisi della onlus Oxfam, i 67 paperon dei paperoni più ricchi del pianeta detengono la stessa ricchezza della metà più povera del mondo, ovvero di 3 miliardi e mezzo di persone. Ma la cosa più grave è che il divario tra ricchi e poveri sta aumentando a dismisura da 25 anni a questa parte, ovvero da quando la globalizzazione neoliberista si è impadronita del mondo con le conseguenze che viviamo ogni giorno, come la distruzione di quello che era lo stato sociale e lo scivolamento anche delle classi medie occidentali verso l’impoverimento…

Vi lascio con alcuni dati che potrete trovare nelle infografiche e che mi hanno colpito particolarmente:

  • Le disguaglianze e la povertà stanno avanzando anche nell’Europa Occidentale: l’Italia, la Spagna e la Grecia si trovano nella fascia di paesi in cui tra il 20% e il 35% della popolazione vive sotto la soglia di povertà: in pratica siamo nella stessa fascia dei paesi balcanici, dell’Egitto, della Libia, del Turkmenistan, del Laos, della Cambogia, dell’Argentina, dell’India, della Tanzania, della Cina e addirittura dell’Etiopia. Logicamente l’Italia è anche spaccata internamente in due: tra un Sud poverissimo e un Nord a livello dei paesi più ricchi.
  • La ricchezza è concentrata nelle mani delle multinazionali tanto che alcune hanno più soldi dei bilanci degli stati nazionali: ad esempio la Apple detiene una ricchezza pari al Pil dell’Austria, la Samsung pari al pil del Portogallo, la Toyota come quello dell’Ucraina, la Novartis come quello della Romania e Bill Gates da solo pari al Pil della Libia.

Lascio alla vostra curiosità leggere le altre infografiche che vi mostreranno le conseguenze di queste diseguaglianze: dall’accesso all’acqua, all’accesso all’istruzione per terminare con le disuguaglianze di genere. Se poi volete arrabbiarvi e rischiare un infarto date un occhiata al grafico di quanto sono scese le tasse per i superricchi dal 1975 ad oggi… Trovate tutto qui: http://www.internazionale.it/atlante/disuguaglianze/

Foto
Foto “On the Outside – 1 hour later” by Henrik Berger Jørgensen

Chi semina vento raccoglie tempesta.

Foto
Foto “Donbass Arena” by Ilya Dobrioglo – flickr

90 minuti più i tempi supplementari non furono sufficienti a stabilire chi sarebbe andato in finale… Ci vollero i rigori: Xabi Alonso si fece parare il primo, poi Iniesta, Piqué, Ramos e Fàbregas portarono la Spagna in finale contro l’Italia e rimandarono a casa i Portoghesi che sbagliarono 2 rigori con Moutinho e Bruno Alves. Sembra passato tanto tempo e invece era la prima semifinale degli europei di calcio che si giocava il 27 Giugno del 2012 alla Donbass Arena, lo stadio della città Ucraina di Donetsk. Come racconta Rainews, tre giorni fa parte della facciata  nord-ovest della Donbass Arena è stata distrutta dalle bombe della guerra civile che si sta combattendo nell’Est dell’Ucraina, fortunatamente senza provocare vittime. In un’estate tragica di guerra può sembrare un fatto piccolo e insignificante eppure a me ha fatto venire in mente Sarajevo che nel 1984 ospitò i giochi olimpici invernali e che 10 anni dopo fu sconvolta dalla guerra dei Balcani: lo stadio olimpico diventò un cimitero di guerra, la pista del bob una trincea.

Quest’estate ha dimostrato di nuovo che la storia non ci insegna mai niente: l’Ucraina, l’Iraq, la Siria, Gaza, Israele, la Libia stanno a testimoniare che con le bombe e con i raid aerei non si risolve mai nulla. Trenta o venti anni fa noi occidentali abbiamo armato una fazione, oggi magari armiamo la fazione opposta e intanto da decenni uccidiamo innocenti, facciamo il deserto e condanniamo generazioni di profughi alla disperazione di non avere un futuro degno di essere vissuto. Abbiamo fatto fuori Gheddafi e Saddam Hussein eppure in Iraq e Libia la popolazione sta peggio di prima. Ci ostiniamo a voler esportare la pace e la democrazia con le armi, quando in tanti ormai ci hanno insegnato che la pace e la democrazia si esportano sradicando la povertà, portando scuole, ospedali e progetti di sviluppo.

Ha ragione Papa Francesco, siamo nella Terza Guerra Mondiale: quella in cui quei 4 miliardi di persone che vivono con meno di 2 dollari al giorno verranno da noi ricchi a chiederci il conto. Se noi paesi occidentali non capiamo che seminando vento siamo perennemente destinati a raccogliere tempesta, continueremo a fomentare il terrorismo disperato di chi non ha niente da perdere e i droni forse non basteranno a salvarci.

In merito vi invito a leggere due interessanti articoli pubblicati sul Fatto Quotidiano:

Crollo del Rana Plaza ad un anno di distanza: Benetton paghi il risarcimento alle vittime.

Foto tratta dal sito dell'ILRF - International Labor Rights Forum
Foto tratta dal sito dell’ILRF – International Labor Rights Forum

Un anno fa il crollo del Rana Plaza in Bangladesh causò la morte di 1.138 lavoratrici che producevano capi di abbigliamento per molte catene di moda occidentali. Ad oggi queste multinazionali non hanno ancora risarcito i parenti delle vittime: vi lascio con quanto scritto dai promotori della campagna Abiti puliti e vi prego di leggere e firmare, più in basso la petizione lanciata dall’International Labor Rights Forum da inviare a Benetton. Domani in Italia festeggeremo il 25 Aprile pensando a tutti coloro che hanno liberato la nostra nazione dalla dittatura fascista. Credo che adesso sia l’ora di mouversi per liberarci dalla nuova dittatura liberista delle multinazionali che, in nome della finanza e del profitto ad ogni costo, schiavizzano, precarizzano e uccidono milioni di esseri umani.

Rana Plaza, un anno dopo. Azioni in Italia e nel mondo per chiedere i risarcimenti delle vittime (tratto dal sito di Abitipuliti.org)

Un anno dopo il crollo del Rana Plaza i marchi che si rifornivano presso le aziende ospitate da quel palazzo non sono ancora riuscite a predisporre adeguati finanziamenti per risarcire le vittime e i familiari dei 1.138 morti.

Nonostante sia stato siglato un accordo innovativo tra marchi, governo del Bangladesh, lavoratori, sindacati nazionali e internazionali e ONG, supervisionato dall’ILO, per predisporre un programma di risarcimento delle vittime del Rana Plaza inclusivo e trasparente, conosciuto come l’Arrangement, il Donor Trust Fund volontario istituito per raccogliere le donazioni è ad oggi tristemente sotto finanziato. Un anno dopo il crollo i marchi e i distributori hanno contribuito con soli 15 milioni di dollari, appena un terzo dei 40 milioni necessari.

“I grandi marchi internazionali della moda hanno nuovamente fallito nel garantire il rispetto dei lavoratori che producevano per loro.” dichiara Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti, “Oggi, violando il diritto dei sopravvissuti e delle famiglie delle vittime del Rana Plaza a ricevere il giusto risarcimento per un disastro che poteva e doveva essere evitato, i marchi europei e nord americani infliggono a migliaia di persone una sofferenza continua, ingiusta e intollerabile. Se poi guardiamo ai profitti realizzati dalla Famiglia Benetton nel 2012” continua Lucchetti “constatiamo che la richiesta di 5 milioni di dollari per il Fondo di risarcimento equivale appena all’1,4% degli utili realizzati da gruppo, una percentuale davvero marginale per un’azienda che deve il suo successo economico anche al lavoro sottopagato e rischioso dei lavoratori bangladesi. Non ci sono scuse per non pagare, le imprese coinvolte devono assumersi le proprie responsabilità, è una questione di diritti e di civiltà.

Per celebrare il primo anniversario dal crollo, attivisti, cittadini e cittadine in tutto il mondo entreranno in azione al fianco dei familiari delle vittime. In Italia, fra le iniziative di pressione verso le imprese italiane Benetton, Manifattura Corona e Yes Zee in favore della costituzione del Fondo di risarcimento, il 24 aprile saranno organizzati:

Firenze | ore 12: Flash mob in Piazza Santa Trinità a cura di EU-ROPA progetto artistico della Compagnia Insomnia dedicato al tema dei diritti umani nell’industria dell’abbigliamento in collaborazione con Filctem-CGIL, Mani Tese Firenze, ACU Toscana e Villaggio dei Popoli
Milano | ore 15: Flash mob in Piazza Duomo a cura di Price is Rice in occasione del Fashion Revolution Day e in collaborazione con Abiti Puliti
Treviso | h.10-19: Palazzo dei 300, mostra L’arte del lavoro a cura Ass. culturale Pulperia in cui saranno ospitati immagini e materiali sul Rana Plaza.

Saranno inoltre organizzate iniziative di sensibilizzazione e raccolta firme a sostegno della petizione internazionale verso Benetton in diverse Botteghe del Commercio Equo e solidale.

A Dhaka, lavoratori e sindacalisti ricorderanno con una serie di eventi tutti coloro che hanno perso la vita quel giorno: tra i vari eventi si potrà assistere al racconto delle vittime presso il Worker Solidarity Center a Dhaka e ad una catena umana sul luogo del crollo.

A livello internazionale, l’Asia Floor Wage Alliance, la Clean Clothes Campaign, l’International Labor Rights Forum (ILRF), il Maquila Solidarity Network e il Worker Rights Consortium organizzeranno eventi commemorativi nelle strade dello shopping e in spazi pubblici.

La richiesta di tutti sarà che i marchi che continuano a rifiutarsi di contribuire al Donor Trust Fund facciano dei versamenti significativi e in tempi rapidi. Tra questi le aziende italiane Benetton, Manifattura Corona e Yes Zee. E poi Adler Modermarkte, Ascena Retail, Auchan, Carrefour, Cato Fashions, Grabalok, Gueldenpfennig, Iconix (Lee Cooper), J C Penney, Kids for Fashion, Matalan, NKD e PWT (Texman), tutte aziende che avevano produzioni al Rana Plaza durante il crollo e poco prima.

Liana Foxvog dell’ILRF aggiunge: “Children’s Place, il cui CEO ha guadagnato 17 milioni di dollari lo scorso anno, ha pagato una cifra pari a soli 200 dollari per famiglia. L’azienda considera davvero la vita delle persone così a buon mercato? Devono pagare di più. I bambini rimasti orfani, i lavoratori rimasti senza arti, le famiglie che hanno perso chi portava l’unico reddito, contano su un risarcimento adeguato ai loro bisogni fondamentali

Il Donor Trust Fund è aperto a donazioni volontarie ed è supervisionato dall’ILO come attore neutrale. “Per raggiungere l’obiettivo dei 40 milioni di dollari è anche necessario che il Governo e gli industriali del Bangladesh aumentino i loro contributi. Parallelamente anche i governi Usa e Ue devono fare passi immediati e concreti per assicurarsi che le aziende dei loro paesi paghino quanto è necessario: esattamente quanto abbiamo chiesto al Governo e alle istituzioni italiane durante il tour con Shila Begum, sopravvissuta del Rana Plaza, lo scorso 1 di aprile durante le audizioni con il sottosegretario al lavoro Teresa Bellanova, la Vice Presidente del Senato Valeria Fedeli, la Presidente della Camera Laura Boldrini e il Presidente della Commissione Diritti Umani Luigi Manconi” ha dichiarato ancora Deborah Lucchetti.

Dal 24 marzo scorso il processo di risarcimento è iniziato e si sta lavorando perché tutti coloro che hanno perso un famigliare o sono rimasti intrappolati nella fabbrica ricevano adeguato risarcimento. “Se mancano i fondi, allora non saremo in grado di fare un buon servizio a queste persone e la situazione si farà molto difficile” ha concluso il Dott. Mojtaba Kazaki, il Commissario Esecutivo dell’Arrangement.

Tratto dall’articolo “Rana Plaza, un anno dopo. Azioni in Italia e nel mondo per chiedere i risarcimenti delle vittime” pubblicato sul sito di Abitipuliti.org

Articolo che accompagna la petizione da inviare a Benetton, (tratto dal sito dell’ILRF – International Labor Rights Forum)

Foto tratta dal sito dell'ILRF - International Labor Rights Forum
Foto tratta dal sito dell’ILRF – International Labor Rights Forum

Benetton è stata di nuovo colta in fallo. Un’inchiesta giornalistica ha scoperto che non aveva rispettato gli obblighi previsti dall’Accordo sulla sicurezza e la prevenzione degli incendi, dopo che due imprese sue fornitrici non erano state riscontrate nella lista pubblica presente sul sito dell’Accordo. Una verifica condotta dal team dell’Accordo ha dimostrato che Benetton ha atteso almeno quattro mesi prima di rendere pubbliche queste aziende agli ispettori, poco prima che la trasmissione andasse in onda. Tutti i marchi sono vincolati a sottoporre gli indirizzi dei nuovi fornitori entro un mese dall’avvio della produzione.

Benetton sembra abituata a non prendersi responsabilità. Dopo che prodotti a marchio Benetton sono stati ritrovati tra le macerie del Rana Plaza, il palazzo crollato dove almeno 1.138 persone hanno perso la vita lo scorso 24 aprile 2013, l’azienda ha negato di avere rapporti con la fabbrica fino a quando fotografie con prodotti a marchio trovati tra le macerie hanno fatto il giro del mondo. Per più di sei mesi Benetton ha rifiutato di assumere qualunque responsabilità per il risarcimento, fino a settembre, quando ha deciso di unirsi al comitato internazionale istituito per la definizione e l’erogazione dei risarcimenti ai lavoratori. Due mesi dopo ha lasciato il negoziato e oggi rifiuta di dare risposte concrete ai lavoratori.

Adesso, quasi un anno dopo l’orribile disastro del Rana Plaza, Benetton non ha ancora messo un centesimo nel Rana Plaza Trust Fund che sta raccogliendo i fondi per il risarcimento dei lavoratori feriti e delle famiglie dei deceduti.

Benetton deve cambiare attitudine. Scrivi a Benetton che la vita dei lavoratori vale e chiedigli di fare un versamento immediato di 5 milioni di dollari nel Rana Plaza Donors Trust Fund.

Foto e testo tratti dalla pagina della petizione da inviare a Benetton sul sito dell’ILRF – International Labor Rights Forum

Purtroppo il flash mob a Firenze, ormai già passato,  è stato fatto ad un orario impossibile per chi lavora. Peccato ci sarei andato volentieri…

La crisi e le scelte virtuose: si consuma meno ma meglio.

Foto
Foto “14/52 – Value” by whatmattdoes – Flickr

Nell’unico post che ho fatto la settimana scorsa  (Granelli di sabbia… per una nuova economia.) scrivevo che, per uscire dalla crisi, dovremo cambiare  i nostri consumi spostando i nostri soldi dall’economia liberista e di mercato verso un’economia solidale e rispettosa dei diritti di tutti, magari anche di qualità. Senza saperlo avevo scritto una cosa che già facciamo e che è oggetto di studio di Università e di Agenzie di Marketing. Vorrei perciò condividere con voi l’articolo seguente pubblicato sulla rivista “Il Salvagente” di questa settimana e che è stato scritto dalla Presidente di una delle più note agenzie di Marketing di Milano.

La crisi e le scelte virtuose: si consuma meno ma meglio.

di Daniela Ostidich Presidente di Marketing & Trade  e pubblicato sul nr. 14/2014 de “Il salvagente

La contrazione delle capacità di spesa ha indotto cambiamenti significativi in molti comportamenti dei consumatori, come conferma anche l’ultima ricerca dell’Osservatorio Fedeltà dell’Università di Parma dalla quale risulta che per risparmiare i consumatori indugiano 6 minuti in più rispetto al passato davanti agli scaffali pur di scegliere in modo più conveniente. Il mito della “quantità” (che reggeva il concetto di consumismo) è stato sostituito da quello della “qualità” (consumo meno, ma meglio, cerco benessere e valore).

Ne consegue che le modalità di acquisto nei punti vendita cambiano: meno frenesia sulle promozioni e meno impulso, più attenzione e analisi sui prodotti prima di metterli nel carrello. Comprando meno ma spendendo in modo più ragionato.

Se questo è il quadro dello shopping, ne consegue che anche i motivi di attrattività cambiano: diminuiscono in modo significativo le persone che amano lunghe visite nei negozi, alla ricerca di impulsi di acquisto non pianificato, di un “passatempo” giocato sulla merce e sul piacere di comprare. Aumentano invece le persone che ricercano il piacere di “consumare”.

La disponibilità di tempo nei negozi si comprime: si vuole perdere meno tempo a cercare il prodotto e più tempo per valutarlo e giudicarlo. I format più performanti in questo momento sono quelli che riescono a offrire un assortimento facile da leggere, con poche sovrapposizioni, ma stimolante, ricco di novità, qualitativo. Non dimentichiamoci che le tipologie di acquisti in maggiore aumento sono quelle del biologico, della tipicità locale o a chilometro zero, dell’etico e del solidale. Il mercato del food retail biologico cresce di oltre il 12% annuo a fronte di un mercato in generale contrazione.

Meno tempo per lo shopping, più tempo per la qualità della vita e per godersi i minori ma migliorati consumi.

Ben diverso è il tema dei discount. Qui la velocità del processo di acquisto è più garantita della semplicità dell’assortimento che dall’assenza di stimoli per acquisti di impulso. Manca in questo caso anche la maggiore accuratezza di valutazione qualità dei prodotti. Ma rimane una sicura convenienza unita a una grande facilità di acquisto.

Probabilmente questo ultimo caso non segna il futuro dei consumi, sembrerebbe ancora legato ai meccanismi del mondo del consumo che fu, se non fosse fortemente giustificato dall’esistenza di coloro che proprio non riescono ad arrivare alla fine del mese. E allora che risparmio sia. La qualità della vita e del consumo è rimandata a tempi migliori.

tratto dall’articolo “La crisi e le scelte virtuose: si consuma meno ma meglio.” di Daniela Ostidich Presidente di Marketing & Trade pubblicato a pag. 8 de “Il Salvagente” n.14/2014

Granelli di sabbia… per una nuova economia.

Foto
Foto “gears” by Natasha Wheatland – flickr

La salita al potere di Matteo Renzi ha suscitato sentimenti opposti: grandi entusiasmi (come in questo articolo di Jacopo Fo) e grandi sospetti (come in questo articolo di Alessandro Robecchi). Io non mi fido e sto tra i sospettosi anche perchè, molte delle manovre previste da Renzi, come il taglio di 85.000 statali, i tagli alla sanità e i 3 anni senza diritti per i precari, sono manovre che abbiamo già visto negli anni scorsi in Grecia, paese dove purtroppo spesso ci tocca leggere il nostro futuro. D’altra parte, come scrive SDRENG in questo articolo, se Marchionne elogia Renzi… io mi preoccupo. Ad essere ottimisti siamo alle solite lacrime e sangue di Monti solo che Matteo Renzi ce le infiocchetterà e impacchetterà con la carta colorata come la sorpresa di un prossimo uovo di Pasqua! E se con una mano ci darà i famosi 80€ in busta paga, c’è il rischio che attraverso le nuove tasse (Tari-Tasi o come diavolo si chiameranno), ce ne riprenda il doppio.

Diciamoci la verità: il problema non è la persona di Matteo Renzi ma il fatto che lui, come i suoi predecessori e come tutti quelli che comandano nell’Unione Europea, Troika, Fmi, etc…, sono i rappresentanti di quel capitalismo liberista e finanziario che, in nome del profitto ad ogni costo, ha causato la crisi che stiamo vivendo, aumentando la povertà di tanti cittadini e di tante nazioni. D’altra parte il rapporto appena uscito di Oxfam (qui una bella sintesi in italiano)  dichiara che 85 super ricchi possiedono l’equivalente di quanto detenuto da metà della popolazione mondiale e che negli ultimi anni le leggi sono state fatte per favorire i più ricchi a scapito dei più poveri tanto che, dal 1970 a oggi, in 29 nazioni sulle 30 analizzate da Oxfam, i ricchi guadagnano molto di più e pagano molte meno tasse.

Il sistema economico liberista è al collasso e l’unico modo per uscirne è andare verso un’economia solidale, più rispettosa dell’ambiente, dei diritti umani sia dei cittadini che dei lavoratori. Chiedere  un’inversione di rotta alla classe dirigente mondiale che è stata la prima causa della crisi è una pia illusione, pensare che tale inversione sia indolore, altrettanto. Quindi Renzi o non Renzi lacrime e sangue sono e lacrime e sangue resteranno, almeno nel breve e medio periodo.

In una discussione fatta alcune settimane fa con alcuni amici del Gruppo d’Acquisto Solidale di cui faccio parte ci siamo chiesti cosa possiamo fare come cittadini per scardinare questo sistema, senza farsi troppo male, cioè senza acuire la crisi che già stiamo vivendo. Tralasciando le posizioni estremistiche, un tantinello rivoluzionarie e soprattutto impraticabili come il ritorno di tutti alla terra tramite la proprietà collettiva dei terreni, l’autosufficienza alimentare e il baratto, rimane la proposta concreta e già attuata da molte persone, indicataci dall’amico G.

Spostare poco a poco i nostri soldi dall’economia liberista e di mercato ad un’economia solidale e rispettosa dei diritti di tutti. Attenzione! Non si tratta di fare beneficenza o volontariato ma semplicemente di usare i soldi che riceviamo come stipendio per acquistare beni e servizi da imprese rispettose dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori.  Ad esempio G. lavora per una multinazionale e il suo stipendio che viene accreditato sul suo conto corrente presso l’unica Banca Italiana che non fa finanza speculativa ma che finanzia piccole realtà del terzo settore e di cui anch’io sono correntista: Banca Popolare Etica. Allo stesso modo se decidiamo di mangiare un’ottima pizza perchè non farlo in uno dei tanti ristoranti gestiti da onlus che in questo modo offrono un lavoro a delle persone svantaggiate come i disabili? E perchè non comprare il caffè equo e solidale invece di quello di George Clooney che è causa di tanti disastri nel mondo?  E perchè comprare la frutta e la verdura proveniente dall’altra parte del pianeta, quando si potrebbe comprare dal contadino accanto a casa a prezzi inferiori, magari anche biologica, contemporaneamnte salvaguardando l’ambiente in cui viviamo?

Gesti banali che sembrano sciocchezze ma che stanno già creando una nuova economia. Per ora si tratta di numeri piccolissimi ma in continua crescita, al contrario di quelli perennemente in rosso dell’economia liberista. Leggete questo articolo di “Repubblica” su Banca Etica oppure quest’altro, sempre su Banca Etica, di “Avvenire”. Infine leggete anche questo bellissimo pezzo sull’Imprenditoria sociale e sul Mercato Virtuoso de “Il Fatto Quotidiano”.

Il mio amico G. vi direbbe che ogni euro spostato dall’economia liberista a quella etica e sociale è come un granello di sabbia che cade nell’ingranaggio del liberismo, col vantaggio che quando quell’ingranaggio si incepperà definitivamente ne avremo già sviluppato un altro, molto più funzionale e soprattutto più rispettoso delle persone e dell’ambiente. Noi forse non ci saremo più ma avremo lasciato ai nostri nipoti un’economia nuova!