Lettera di un professore di italiano ai suoi studenti indiani del Kerala.

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Foto “Fishermen” by Akshay Davis – flickr

Come sanno i miei lettori di più lungo corso la mia famiglia ha, da una decina di anni, un’adozione a distanza fatta col Movimento Shalom nello stato del Kerala (India), di una ragazzina, figlia di una povera famiglia di pescatori. In questi anni abbiamo imparato a conoscere questa realtà, fatta di persone povere ma piene di dignità come sicuramente lo erano Valentin Jalestine e Ajeesh Binki, i due pescatori assassinati dai marò italiani.

Su questa tristissima vicenda ho già scritto le mie idee in questo post dello scorso anno. Oggi vorrei condividere con voi una bellissima lettera che Alberto Prunetti, professore di italiano in India, ha inviato ai suoi studenti del Kerala e che è stata pubblicata sul sito di Carmillaonline.

“Lettera ai miei studenti indiani sugli effetti linguistici dei colpi d’arma da fuoco partiti dal ponte di una petroliera italiana” di Alberto Prunetti.

Care ragazze, cari ragazzi,

per svariati mesi sono stato il vostro insegnante di italiano tra Mumbai e Bangalore. La maggior parte di voi veniva dal Kerala. Alcuni dei vostri genitori erano pescatori. Ricordo i sacrifici dei vostri familiari, che speravano di regalarvi un futuro con una laurea in infermieristica e un corso di italiano. Ricordo che l’Italia e l’Europa rappresentavano ai vostri occhi la possibilità di una svolta nella vostra professione e nelle vostre vite.

Ricordo anche che, come tutti gli studenti, l’uso delle preposizioni italiane vi metteva in difficoltà.

Per presentarvi, dicevate: “Sono nato a Kerala”. Io allora spiegavo che la regola grammaticale vuole l’uso della proposizione “in + nome dello stato” e “a + nome di città. Per questo si dice “Sono nato in Italia” e “Sono nato a Roma”. Dato che il Kerala è uno stato (l’India è una confederazione di stati, come gli Usa per capirci) si deve dire: “Sono nato in Kerala, a Trivandrum”, come si dice “Sono nato in Colorado, a Boulder”.

Capirete il mio stupore e la mia tristezza, dopo l’assassinio dei due pescatori Valentine Jalestine e Ajeesh Binki, colpiti da colpi d’arma da fuoco provenienti dalla petroliera Enrica Lexie (è un dato di fatto: le istituzioni italiane hanno già versato un indennizzo ai parenti delle vittime in un accordo extra-giudiziario di cui si parla poco nel bel paese). Dopo questo tragico episodio, all’improvviso gli italiani hanno scoperto l’esistenza del vostro mare e hanno cominciato a dire: “Il nostro ambasciatore” oppure “l’inviato del governo”… “è andato a Kerala”. L’hanno fatto tutti, da chi allora era a capo del governo, ai direttori dei più prestigiosi telegiornali.

 Hanno sbagliato, dimostrando la propria ignoranza di almeno una di queste realtà:

 _l’India;

_la grammatica italiana;

Probabilmente entrambe, direi.

Purtroppo però voi, ascoltando questi importanti opinionisti, potreste pensare che devo aver sbagliato io. Che non ero un buon insegnante. Perché io vi dico una cosa e quelli che contano mi contraddicono. E poi in fondo sono solo un insegnante di italiano – anzi, un ex insegnante – e probabilmente ho meno autorevolezza ai vostri occhi di un direttore di un Tg o di un capo del governo.

Ma la realtà, cari studenti, è che la ragione se la prende chi impugna un fucile o chi usa le parole come se fossero armi. Perché può raccontare le cose come più gli conviene. Come quei fatti di cronaca definiti eroici quando nella migliore delle ipotesi sono un tragico errore. Come le preposizioni usate a caso.

Io però qualche consiglio linguistico ve lo do lo stesso.

Su aggettivi e pronomi possessivi: diffidate da chi eccede nell’uso dei possessivi. “La nostra lingua”, “la nostra religione”, “i nostri marò”, “la nostra patria”. Servono a alimentare un immaginario condiviso, dietro costrutti identitari, per nascondere divisioni più importanti. Questa retorica della condivisione è sempre più diffusa, in italiano. Come del resto da voi. Ma prestate attenzione alla retorica. Guardate cosa c’è dietro. Si parla di “uomini di mare” con un termine-ombrello che ha una denotazione troppo ampia. Anche sul mare, non esistono solo “uomini di mare”. A un tiro di schioppo, sul vostro mare pieno di pesce e di reti cinesi, si sono trovati vicini inermi pescatori e soldati in funzione di contractor armati, che rivendicano il diritto di sparare a difesa del petrolio e delle merci occidentali. Quel petrolio maledetto che si paga in dollari e in vite umane. Quegli “uomini di mare” tanto diversi, in realtà sono stati per un istante uniti da una sola cosa: la traiettoria di un proiettile. Non si possono mettere sotto uno stesso termine, “uomini di mare”, chi difendeva le merci occidentali su rotte coloniali, guadagnando in un giorno quello che i vostri genitori guadagnano in un anno, e chi è morto per portare il pane e il pesce sulla tavola dei propri figli. Non fatevi ingannare dalla retorica degli “uomini di mare”. Voi conoscete l’opera di Jack London e sapete che un mozzo non è un capitano.

Un’altra parola controversa, che in classe non abbiamo mai usato, è questa: “terrorista”. Ne capite il significato ma non comprendete il campo di denotazione. Io sono più confuso di voi. Con buona ragione, le autorità italiane si stanno battendo perché l’accusa di terrorismo non cada sulle spalle dei due marò. Capisco il vostro stupore di fronte al fatto che in Val di Susa quattro giovani no tav sono stati accusati da una procura italiana dello stesso reato. Anche loro sono considerati terroristi, eppure non hanno ucciso dei pescatori, ma pare che siano accusati del danneggiamento di un compressore. Insomma, mi sembra che bisogna precisare meglio i campi di denotazione e la profondità semantica di alcuni termini appartenenti al lessico italiano, per non dare l’impressione che un compressore valga più della vita di due pescatori indiani.

Avrei tante cose da dirvi, ma tante altre dovrei dirle ai miei connazionali che si fanno bombardare da parole prive di idee nei telegiornali. Parole che fanno gonfiare il petto ma svuotano la testa. Informazione o propaganda? Comunicazione o rumore martellante che solletica le emozioni più viscerali degli italiani? Espressioni ben composte grammaticalmente che però rimandano a assurdità nel campo della referenza. L’espressione “Pirati in Kerala”, ad esempio, grammaticalmente ben formata, ha lo stesso valore delle “idee verdi senza colore che dormono furiosamente”, di cui parlava un altro professore, ben più importante di me: Noam Chomsky. Perché in Kerala i pirati compaiono solo sugli schermi dei vostri splendidi cinema. Ma qui si entra nel campo della logica e il vostro teacher preferisce non avventurarsi tanto al largo nel mare delle idee chiare e distinte. Non vorrei che prendessero per pirata anche me.

A proposito: degli effetti linguistici di quegli spari ne ho parlato sopra, di quelli pragmatici non ne vuole parlare nessuno. Jalestine e Binki sono morti, dopo quegli spari. Quanti italiani si ricordano i loro nomi? Se mai tornerò a farvi lezione, vi proporrò un’unità didattica con due canzoni dedicate ai pescatori, una cantata da Fabrizio De André e l’altra da Pierangelo Bertoli (lo so che vi annoiate con la musica italiana, ma che ci posso fare?). Meritano di essere didattizzate, innanzitutto perché si prestano per illustrare il modo imperativo e il tempo futuro, poi perché ogni volta che le ascolto mi viene in mente una banalità: che un soldato può diventare un eroe, ma un pescatore quando non torna a casa viene dimenticato.

Un ultimo punto. Quello della condanna. Che poi è linguaggio anche quella, è un atto linguistico sia l’imputazione che la sentenza, un atto linguistico con conseguenze pragmatiche. Qui si parla tanto di condanne e pene. Io credo che il carcere, come la bacchetta dei professori di un tempo, non serva a nulla e credo anche che le vite umane non si tolgono, né con la corda né con il fucile. Immagino però che da qualche parte, in quelle migliaia di pagine di epica e di leggende e nei film e nelle canzoni dei pescatori del Kerala che avete invano cercato di insegnarmi – che pessimo studente di malayalam sono stato… – ci deve essere la soluzione anche per questa cosa dei marò, per uscirne bene oltre quel polverone sollevato dai media e dalle retoriche nazionaliste, che rende tutto più avvilente e incomprensibile. Nei panni di chi ha sparato dal ponte della petroliera Enrika Lexie, chiederei di essere condannato a costruire asili per gli orfani del Kerala. E chiederei che invece di comprare costosi bombardieri F35, il ministero della difesa italiano usi una parte di quei soldi per costruire delle scuole in Kerala (non “a Kerala”, cari ministri). E che invece di spedire militari e diplomatici, l’Italia accolga degli infermieri del Kerala nei propri ospedali e li paghi correttamente. E che i due paesi attivino dei programmi di scambio tra studenti e delle borse di studio, pagati dal ministero italiano della difesa, visto che nel paese di Marco Polo anche gli opinionisti della televisione pensano che l’India sia un paese di fachiri (e io credo che voi in Kerala non abbiate mai visto un fachiro, giusto?). E che i fucilieri che hanno sparato contro i pescatori facciano la mattina il muratore e il pomeriggio l’insegnante di italiano in una scuola del Kerala, che forse a quel punto in omaggio ai “nostri insegnanti” il ministero si degnerà di riconoscere la professionalità degli insegnanti di italiano LS/L2. Poi la pena continuerebbe la sera: dopo aver mangiato un thali di riso sulle foglie di banano, che non c’è niente più sano e gustoso, i nuovi professori diventerebbero studenti per imparare la vostra lingua, il malayalam. Liberi di muoversi in Kerala e di ricevere visite, dovrebbero vivere come i pescatori e conoscere l’uso delle reti cinesi, che sorgono maestose a Kochi. Se vi sembra una pena leggera mettersi nei panni di un muratore o di un insegnante, pensate che un militare italiano in funzioni di contractor per un armatore privato sui vostri mari guadagna 467 euro al giorno, un insegnante di italiano all’estero su un progetto non ministeriale, a parità di latitudine, è pagato circa 40 euro al giorno, mentre un pescatore o un muratore indiani vivono sotto la soglia della povertà del vostro stesso paese, sudando per poche rupie dall’alba al tramonto.

La pena poi dovrebbe essere linguistica, ovvero condizionata alla scrittura di una canzone in malayalam che parli dei frutti del mango e del sorriso delle ragazze di Allepey. Una di quelle canzoni che, costretto da voi, ballavo con poca maestria. Un giorno allora, dopo aver imparato il malayalam al punto di saper scrivere una canzone con le parole della lingua di Jalestine e Binki, quel debito con la terra dell’acqua e del riso sarebbe estinto e chi ha sparato contro dei pescatori sulle acque del Malabar sarebbe libero di tornare nel paese dove è nato. O di rimanere, se fosse felice di quella nuova vita.

A patto di non cantare mai quella canzone a Sanremo.

Probabilmente queste mie parole risulteranno naif a voi e poco patriottiche alle orecchie dei miei connazionali. Ma io non sono un fuciliere né un diplomatico, non amo né le armi né le galere e leggo troppi libri. Dico solo che da insegnante io il caso Jalestine e Binki, che qui – ennesimo errore linguistico – chiamano “il caso marò”, l’avrei già risolto così, da tempo.

Forse le cose andranno in un altro modo.

In ogni caso vi abbraccia il vostro insegnante di italiano, vostro allievo di tante giornate indiane, che con queste righe si toglie un rospo dalla gola (è una metafora, non prendetela alla lettera) e vi ricorda per l’ennesima volta che non dovete alzarvi quando il prof entra in classe.

Alberto

tratto dall’articolo “Lettera ai miei studenti indiani sugli effetti linguistici dei colpi d’arma da fuoco partiti dal ponte di una petroliera italiana” di Alberto Prunetti e pubblicato su Carmilla on line.

Ciao Francesco Di Giacomo! R.I.P.

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Foto “Francesco Di Giacomo” by Studio Grafico EPICS – flickr

Quando ero in terza elementare la vita (o meglio mia mamma) mi pose davanti ad un dubbio esistenziale: scegliere fra passare i pomeriggi in uno sgarrupato doposcuola che era il ricettacolo massimo del bullismo oppure frequentare dei noiosi corsi di solfeggio e di chitarra nella scuola di Musica comunale. Scelsi la musica e la continuai, come hobby, per quasi 20 anni.

A 12 anni cambiai strumento e mi dedicai, con alterni successi, a clarinetto e sassofono, iniziando a suonacchiare in complessini parrocchiali e bande di paese. Questa mia passione mi portò a frequentare ragazzi molto più grandi di me che mi introdussero al mondo del rock e in particolare al progressive italiano: quello della Premiata Forneria Marconi, delle Orme  e soprattutto del Banco del Mutuo Soccorso (anche se non disdegnavo  neppure le cassette doppiate dei Genesis e dei Jethro Tull). Fu così che uno dei primi concerti rock che vidi, andando al teatro Tenda di Firenze senza i genitori, ma con i compagni del complessino parrocchiale, fu proprio quello del Banco del Mutuo Soccorso. Per uno strano caso del destino, in uno stesso anno, forse il 1980 o il 1981, riuscì a vedere il Banco del Mutuo Soccorso  dal vivo per ben 3 volte di fila: al Teatro tenda di Firenze, nel mio paese di nascita e di nuovo a Firenze al Parco delle Cascine, in uno degli storici Festival dell’Unità del PCI. Fu grazie al “Mela”, mio compagno di scuola dell’epoca, che quando il Banco venne al mio paesello natio mi intrufolai dietro le quinte e passai un pomeriggio fra i musicisti, tra soundcheck, prove e chiacchiere al bar. Se mia mamma non l’ha buttato via a casa dei miei dovrei avere ancora la locandina del concerto con gli autografi di tutta la band.

In un periodo in cui la musica era quella dei cantautori (bei testi ma con 4 accordi in croce) oppure era costruita a tavolino come la discomusic, il progressive era, ai miei occhi di giovane strimpellatore, un genere dove emergeva l’abilità dei musicisti. Finalmente a degli ottimi testi si aggiungevano delle armonie e degli assoli che dimostravano il piacere di suonare dal vivo e il talento di tanti bravissimi musicisti.

Grazie Franceso Di Giacomo per quei concerti e per quei dischi… R.I.P.

Un estratto del Concerto alle Cascine… Io c’ero! E c’era pure la Rai che all’epoca trasmetteva anche i concerti rock!

Aforisma blogghettaro…

Girellando su Flickr alla ricerca di una foto mi sono imbattuto in un aforisma molto carino. Lo dedico a quelle persone che vengono su questo blog (o vanno su altri) e nei post, in cui non appaiono ne’ nomi ne’ tanto meno cognomi, pensano di leggerci il proprio nome…

Ogni post pensi che sia riferito a te? Allora hai la coda di paglia.

aforisma trovato in una foto su Flickr (molto curiosa anche descrizione della foto)

Che tristezza il Mandelaforum senza le maglie arancioni di Trisomia21!

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Foto “Firenze – Sbandieratori della Signoria – Ti presento un amico – Trisomia 21” by Sbandieratori della Signoria – flickr

Il Palazzetto dello sport di Firenze è per me un luogo molto caro. Ci ho visto un po’ di tutto: Benigni, i Litfiba, Brignano, Renato Zero, la Firenze Basket, il Circo Americano, i campionati del mondo di Tiro con l’Arco, Beppe Grillo e, giusto lo scorso 8 Febbraio, i campionati italiani di Ginnastica Artistica.  Se mando indietro le lancette della macchina del tempo e torno a quando ero un giovane jazzista di belle speranze, ci ho anche suonato per ben 7 sere, con una band che apriva le date fiorentine della tournée di Claudio Baglioni “Oltre il concerto” del 1992.

Il nostro “Mandelaforum” ha sempre avuto una marcia in più: quella della solidarietà e dell’integrazione, a partire dal nome, che invece di essere quello di uno sponsor milionario,  si ispira a Nelson Mandela. Dal 2008 i due bar all’interno del Palazzetto erano in gestione all’Associazione Trisomia 21, onlus che si occupa di integrazione delle persone con la sindrome di Down e che offriva una bella esperienza lavorativa a tanti ragazzi disabili. Leggo sul blog di Trisomia 21 che l’associazione lascerà i Bar del Mandela Forum. 

Peccato! Ci eravamo abituati a quelle magliette arancioni sorridenti che ci servivano panini e gelati! Venire a prendere un caffè o una schiacciatina da voi era una piacevole parentesi che aggiungeva simpatia agli spettacoli che stavamo vedendo. Senza i vostri colori da ora in avanti il Mandelaforum sarà più triste!

Vorrà dire che noi, le prossime volte che andremo al Palasport, ci porteremo i panini da casa!

Lo scandalo Hexavac: un vaccino inefficace per 2.500.000 di bambini?

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Foto “Vaccination Without Vaccine” by Truthout.org – flickr

C’è voluta un’interrogazione parlamentare di 6 senatori del Movimento 5 stelle e la copertina del settimanale “Il salvagente” della scorsa settimana per portare all’attenzione dell’opinione pubblica lo scandalo del vaccino esavalente Hexavac, prodotto dalla Sanofi Pasteur MSD e somministrato a 2.500.000 di neonati tra il 2000 e il 2005.

La storia del vaccino, che avrebbe dovuto proteggere i bambini da difterite, tetano, poliomielite, epatite B, pertosse ed emofilo tipo B, iniziò con la sua commercializzazione nell’anno 2.000, per le consuete vaccinazioni obbligatorie. Nel 2005 il  Comitato dell’Agenzia per i medicinali per uso umano (Chmp) sospese l’autorizzazione per l’Hexavac a causa di forti sospetti di inefficacia nella protezione a breve e lungo termine contro l’Epatite B.

Uno studio, condotto in 6 centri vaccinali italiani tra il 2008 e il 2009 i cui risultati furono pubblicati sulla rivista “Vaccine”, rilevò come solo il 60,1 per cento dei bambini vaccinati presentava un livello di anticorpi antiHBS maggiore di 10mlU/ml, valore attestante l’efficacia dell’immunizzazione.

Nel 2012 Sanofi Pasteur MSD ha ritirato dal commercio il vaccino Hexavac ma è rimasto il problema dei bambini vaccinati tra il 2000 e il 2005 , che è ritornato alla ribalta adesso con un nuovo studio su 750 bambini vaccinati dieci anni fa, iniziato lo scorso Gennaio e  che prevede una nuova rivaccinazione.

Come riportato dall’interrogazione dei senatori del Movimento 5 stelle e come testimoniato dall’intervista che “Il salvagente” ha fatto al pediatra  Eugenio Serravalle, ci sarebbero forti sospetti sulla sicurezza di una nuova vaccinazione per quel 60,1% di bambini che hanno comunque già sviluppato gli anticorpi contro l’Epatite B. In ogni caso, i 750 genitori che decideranno di far rivaccinare i propri figli riceveranno un un omaggio che comprende: un termometro digitale, un righello, una tessera identificativa ed un diario dove annotare la temperatura del bambino ed eventuali reazioni locali nei 14 giorni successivi all’iniezione.

Se per caso siete genitori o parenti di bambini nati tra il 2000 e il 2005 che potrebbero essere stati vaccinati con l’Hexavac parlatene col vostro pediatra di fiducia…

Per la scrittura di questo post mi sono avvalso di queste fonti (che potete consultare per approfondire)

AGGIORNAMENTO (retroattivo…)

Mentre stavo scrivendo questo post mi sono imbattuto in un altro caso simile, segnalato da “Informare per resistere” nel 2012. Il caso del vaccino esavalente Infanrix Hexa (Codice 34905) della ditta belga GlaxoSmithKline Biologicals s.a., lotto A21CB191B con data di scadenza 31-01-2014, che a causa di una probabile contaminazione batterica, dal 2012 è stato ritirato in molti paesi come Slovacchia, Spagna, Germania, Australia, Francia e Canada. Se avete vaccinato con l’esavalente dei bambini tra il 2012 e gennaio 2014, magari approfondite anche questa notizia…

Fonte di questo aggiornamento:

Di corsa, controvoglia…

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Foto “New Running shoes” by aaipodpics – flickr

Dopo un 2013 passato tra fisioterapisti, ortopedici, radiografie, tecar e massaggi ho ricominciato a correre. Oddio, correre è una parola grossa… diciamo che dall’inizio dell’anno ho ricominciato ad allenarmi. A chi mi incontra per strada sembrerà di vedere un ciccione tipo Papà Pig che arranca con ritmi da lumaca, perlopiù sbuffando come una vecchia locomotiva a vapore. Comunque ho già perso 2 kg degli oltre 20 che dovrei smaltire per tornare al mio peso ideale, riesco a correre per oltre un’ora e ho un autonomia di circa 12 o 13 km a seduta, anche se la velocità è veramente da bradipo in letargo. Riguardando sul pc mi sono accorto che in Febbraio sono riuscito a macinare fino a 40km di corsa a settimana, anche se certi doloretti mi stanno avvisando di procedere gradualmente e non tirare troppo la corda… Comunque, preso da una botta di ottimismo, sono andato anche a comprare un paio di scarpe da corsa nuove e, visto che mi sono imbattuto in un’offerta strepitosa, ne ho prese due paia, uguali a quelle nella foto e di cui vi avevo parlato in questo post… Roba, che se continuo con questa lentezza, ho in ripostiglio le scarpe per correre fino al 2016…

Domenica scorsa i miei colleghi di ufficio mi hanno tirato dentro ad una gara non competitiva per beneficenza a favore di Libera. Non ho potuto dire di no e così sono rientrato per qualche ora nel mondo del podismo: quello fatto di gare, di squadre, di traguardi, di ristori, di sfottò. Un mondo  che a fine 2012 avevo abbandonato completamente per i miei problemi fisici. Dopo averci passato oltre 9 anni, aver partecipato a gare più o meno lunghe tutte le settimane, essermi allenato in compagnia di tante persone per 3 o 4 volte a settimana, ho mollato totalmente perchè andare alle gare e non poter correre era una sofferenza. Mi sentivo come un bambino diabetico che viene portato in pasticceria la Domenica mattina a vedere gli altri che si abbuffano di brioches, bigné, millefoglie…

Un anno completamente lontano dall’ambiente delle corse è stato molto istruttivo perchè mi ha consentito di distinguere gli amici veri da quelli che non lo erano… Nel momento dello sconforto c’è stato chi s’è fatto sentire, anche solo per chiedere come andava, in mille modi: per telefono, e-mail, per SMS, su Facebook . Alcuni si sono perfino offerti per accompagnarmi nei miei allenamenti da lumaca. Qualcun altro invece ha tirato diritto per la sua strada e in un anno non s’è fatto mai sentire per niente. Tranne Andrea, sulla cui amicizia avrei messo e metterei la mano sul fuoco, il resto degli “amici” è stato davvero una sorpresa… Chi conoscevo e frequentavo da meno tempo si è dimostrato molto più vicino di chi conoscevo da dieci anni. Persone con cui avevo meno confidenza si sono dimostrate più attente alle mie condizioni di chi, per trascorsi passati,  ruoli di gruppo o amicizia, avrei pensato che mi fosse più vicino. D’altra parte, nel mondo della corsa, ogni runner ha i suoi obiettivi: c’è chi vive il podismo come attività socializzante e quindi si ricorda di te e poi c’è chi ti dimentica in fretta, perché invece sta correndo veloce verso altri intere$$i…

Con questi sentimenti Domenica scorsa mi sono riaffacciato nel rutilante mondo delle garette… Farlo con i colleghi d’ufficio, con cui quotidianamente facciamo tutt’altre cose, è stato divertente e senza di loro non l’avrei fatto. Dalle prossime domeniche tornerò ai miei allenamenti solitari nella natura. Per ora,  di tornare nel circo colorato delle gare, non ho proprio voglia… di beccarmi nuove delusioni da amici vecchi, ancora meno…

Piantate fiori, per non far scomparire le api…

Mi scuso con tutti i lettori ma in questo periodo non ho molto tempo da dedicare al blog e perciò gli articoli si stanno facendo sempre più radi e corti… Oggi comunque voglio presentarvi un video che mi ha segnalato un’amica (grazie Susanna), che spiega come mai le api stanno scomparendo e cosa possiamo fare noi per aiutarle. E’ solo un quarto d’ora di video ma è molto interessante e vale la pena di vederlo (…ci sono i sottotitoli in italiano)!

Non è mai simpatico svelare il finale di un film, però se proprio qualcuno non ha 15 minuti per vedere il video, vi lascio con l’esortazione finale… Piantate dei fiori nei vostri giardini e nei vostri balconi e non usate pesticidi! Le api vi ringrazieranno….